“Aiutavamo gli altri, ma ora i poveri siamo diventati noi”

Davano una mano ai più poveri, a quelli senza futuro. Sono passati 2 mesi, un’altra vita. Adesso sono loro, a tendere una mano in cerca di un po’ di aiuto per pagare le bollette, parte dell’affitto, la spesa di tutti i giorni. “Ero una volontaria della Comunità di Sant’Egidio. Mi è sempre piaciuto sentirmi utile, solidale”. Silvia ha 52 anni. Fino a metà marzo lavorava nel capoluogo ligure come operatrice socio sanitaria: “Sono una che si affeziona alle persone, soprattutto agli anziani: non mi sembrava giusto nascondermi, abbandonarli”, racconta. Gli è rimasta vicino, ed è andata così che si è ammalata: Covid. “Da un giorno all’altro ci è crollato il mondo addosso”. Addio al lavoro.

Isolata in casa col marito, finito in cassa integrazione. Un tempo, lui la affiancava nel volontariato. “È finita che abbiamo chiesto aiuto al parroco della chiesa di Nostra Signora di Loreto, qui nel quartiere di Oregina, per farci portare un po’ di spesa. Perché non potevamo più permettercela. Per fortuna che ci sono gli amici di Sant’Egidio: ora tocca a noi essere aiutati. Sembra impossibile, è tutto vero”. Il buio dei nuovi poveri. “Ci si è persino rotta la macchina, non parte più. Me ne sono accorta quando dovevo andare alla Asl per fare il secondo tampone. Ci dovrebbe andare anche mio marito: come facciamo?”.

Domani Genova e la Liguria provano a ripartire. Loro due, no. Eppure, solo un mese e mezzo fa la vita era così diversa. “Eravamo felici. Motivati, con una gran voglia di vivere e contribuire alla comunità. Ogni sera tornavo dal lavoro contenta di avere dato tutta me stessa. Non mi sentivo un’eroina, no: una donna parte di una famiglia. Come tutti gli altri”. Fino a “quella” sera. “All’improvviso stavo male. Niente febbre, però dolori fortissimi per tutto il corp”.

Silvia, origine peruviana, vive in Italia da dieci anni e a Genova da due. Lavora – forse è meglio dire: lavorava – in una grande struttura sanitaria genovese. “Mi hanno accompagnato di corsa in ospedale, ho cominciato ad avere paura”. Il fantasma del Coronavirus. “Dopo 5 giorni sono tornata a casa. Mal di testa terribile. Non sentivo più i gusti. Appetito: zero”. I sintomi.”Bevevo solo acqua. Mi sentivo uno straccio, il medico mi ha detto di prendere la tachipirina”. Il primo tampone conferma: positiva al virus. E proprio quando ha iniziato a sentirsi meglio, la sorpresa più amara: le è scaduto il contratto di lavoro. Niente più stipendio a partire da quel giorno: perché l’impiego di Silvia è precario, non è prevista per lei nessuna tutela in questa fase di convalescenza. “Voi direte: c’è sempre tuo marito”.

Ma Fulvio lavora come cuoco in un ristorante genovese. Fino a metà marzo. Lavorava, anche lui. Il locale ha naturalmente chiuso, è finito in cassa integrazione. Ad oggi, non ha ancora percepito un euro. “Andiamo avanti coi soldi che ho guadagnato nei primi dodici giorni di marzo”, racconta lui. Che ha tre figli, avuti dal precedente matrimonio: e gli alimenti da pagare.

Da allora, sono trascorsi due mesi, fanno conti che non possono quadrare. La cifra di 350 euro di affitto è diventata insostenibile. E le bollette, poi. “Siamo sempre stati precisissimi”, dice lei, con la voce che si incrina per l’emozione.”Ho telefonato alla padrona di casa per spiegarle. Ha capito, è stata molto comprensiva. Siamo così mortificati, non è da noi”. Mortificati, ripete. Silvia ha sempre lavorato. “Appena arrivata a Genova ho fatto la badante, per quattro anni. Poi altri due da un’altra anziana. Ci so fare. Così ho pensato di iscrivermi al corso e diventare operatrice socio-sanitaria: ce l’ho nel sangue”.

Non è mai stato facile, tra un contratto e l’altro: “Perché si trovano spesso lavori a breve termine”. Ma non si è mai fermata. A metà marzo è stata la prima volta, negli ultimi 10 anni. “Ora sto aspettando i risultati del terzo tampone. Il secondo era negativo, speriamo bene: vorrei tanto poter uscire di casa. E tornare a lavorare”. Come una persona “normale”, aggiunge. “Una come tutti voi”.

La Comunità di Sant’Egidio, gli amici che l’avevano accolta, coinvolgendola nelle attività del quartiere, adesso sono una delle poche stampelle. “Roberta, Nadia, ci aiutano con la spesa. Telefonano, non ci fanno sentire soli. Prima ero io ad aiutare gli altri: adesso, senza di loro saremmo persi. Ma il futuro mi fa paura”.

 

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