Covid, il romanzo che verrà

Chi avrebbe potuto dire al povero scrittore scozzese Peter May, quindici anni fa, di non disperare? Il romanzo che andava proponendo senza fortuna nel 2005 avrebbe destato interesse nel 2020. Profetico è dire poco, fin dal titolo: Lockdown. Ma gli editori, allora, non parvero granché interessati, e May collezionò parecchi rifiuti. Il “thriller pandemico” riguadagna interesse al momento giusto. Lawrence Wright, autore statunitense, ha visto anticipare dal suo editore l’uscita di The end of October, incredibilmente ambientato nella primavera del 2020 segnata dalla diffusione di un virus partito dall’Asia. Fin qui si tratta di profezie o distopie profetiche: come nel caso eclatante del romanzo del 1978 firmato Stephen King, L’ombra dello scorpione.

Proprio King ha confessato di avere rimesso mano al progetto su cui è al lavoro, retrodatando l’ambientazione a prima della pandemia. Se – come dice King – è un evento di cui sua nipote parlerà ai propri figli, gli scrittori non possono fare finta di niente.

Dobbiamo prepararci a una tempesta di romanzi sul tema? Se lo domanda Emily Temple su LitHub. E aggiunge le considerazioni di un suo amico romanziere: “La vera domanda è se qualcuno sarà interessato a leggerli una volta che sarà finita. Io, per esempio, sono già stufo”.

La scrittrice Amber Sparks offre il suo (severissimo) consiglio non richiesto: se stai scrivendo fiction su questo tema, smetti. L’autore cinese Yan Lianke, in un lungo e dolente articolo ripreso da diverse testate europee, è più netto ancora: parla di totale impotenza della letteratura rispetto a una catastrofe tanto furente. “La letteratura, infatti, non può trasformarsi in mascherine da inviare nelle zone colpite dal contagio, né tantomeno può tramutarsi in tute protettive a uso del personale medico. Quando la gente ha fame e sete, la letteratura non supplisce alla carenza di pane e latte”.

Che cosa si può scrivere? Che cosa si dovrebbe scrivere? Ma soprattutto: si può scrivere? O conviene attendere in silenzio? In un articolo pubblicato dal quotidiano francese “La Croix”, vengono riprese le parole di un pamphlet uscito dopo l’attentato alla redazione di “Charlie Hebdo”. Lo scrittore Mathieu Riboulet e lo storico Patrick Boucheron ragionavano su quei momenti in cui sentiamo istintivamente che un’esperienza collettiva di dolore e di lutto è già storia mentre lo stiamo vivendo. Da dove comincia dunque il racconto? Forse la scrittura del presente “può essere solo un esercizio di accompagnamento. Lo scrittore va al capezzale, tiene la mano del mondo”.

Diventa un diarista fra i diaristi, se è vero che il diario – come ha scritto Antonio Muñoz Molina su El País – è “la scrittura naturale di questo tempo”. Se è vero che solo all’indicativo presente, per ora, si può scrivere: cronaca della reclusione e dell’attesa, il diario testimonia che le cose non accadono mai in astratto. “Quello che è successo è successo a qualcuno. E poiché chi scrive non sa cosa accadrà domani o tra poche ore, racconta quello che vede o quello che ha sentito o quello che gli passa per la testa, senza distinguere ciò che negli anni sembrerà rilevante o sarà scartato come irrilevante”.

L’eterno tema della giusta distanza. Come bambini che scrivono sul loro quaderno, stiamo disegnando tutti “l’immensa e meticolosa mappa del presente”. “Anche così comunichiamo attraverso i secoli”: in un articolo del “New York Times” su esperienze di persone che, senza pretese artistiche, si stanno impegnando a tradurre in scrittura o disegni i loro stati d’animo in quarantena, così si esprime un editore che ha custodito e studiato – con stupore – i diari della prozia.

Nel frattempo, comunque, sono tornati in classifica Camus e Saramago. Segno che abbiamo bisogno non solo di cronaca ma anche di metafore? È ancora troppo presto perché i fatti di Wuhan e di Codogno e di New York siano metafora di alcunché? Il dibattito resta aperto, mentre – sono parole della scrittrice Premio Nobel Olga Tokarczuk – “ci stiamo preparando alla grande battaglia per una nuova realtà che non siamo neanche in grado di immaginare”. E se il gesto stesso di scrivere, di scrivere un romanzo, una volta usciti da questa stagione, apparisse diverso?

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