Parla il paziente 1. Mattia: “Nel mio coma sognavo l’anticamera della morte.”

“Questi due mesi sono stati sconvolgenti, molto più che inimmaginabili, altro che un film. All’improvviso mi sono ammalato, sono arrivato ad un passo dalla morte e sono risorto. Sono rimaste contagiate e sono guarite mia moglie e mia mamma. Il virus sconosciuto ha ucciso mio padre. È nata infine Giulia, la nostra prima figlia. Ho imparato a resistere e a credere nella differenza tra fiducia e utopia, a considerare essenziale ogni istante di normalità. La vita e la morte, senza offrirci l’opportunità di percepirlo, ogni giorno si sfiorano in silenzio attorno a noi”.

Mattia Maestri per la prima volta racconta i giorni che hanno reso diversi il mondo e la sua esistenza. Parla sulla porta della sua casa a Codogno: non dentro, per rispettare la sicurezza della moglie Valentina e della piccola Giulia, che ha visto venire alla luce dodici giorni fa. Per la storia del coronavirus, il ricercatore dell’Unilever di Casalpusterlengo, 38 anni il prossimo luglio, laureato in Scienze alimentari a Milano e addetto allo sviluppo di detersivi per gli ambienti, resta il “paziente 1” scoperto in Italia lo scorso 20 febbraio. “Ho perso conoscenza a Codogno pensando di avere una semplice polmonite e mi sono svegliato dopo venti giorni a Pavia, sopravvissuto a Covid-19. Ero anonimo, la pandemia mi ha trasformato in un simbolo in Europa. La mia esperienza resta incredibile, ma più ancora lo è la quantità di storie invisibili che costantemente ci scorrono accanto: solo il caso, adesso lo so, sceglie quale assegnare ad ogni persona”.

A due mesi esatti dalla scoperta della sua positività al coronavirus Mattia non si è ancora completamente ripreso. Spesso è costretto a distendersi per riposare. Accetta oggi di parlare “perché il mio caso può aiutare gli infettati a non mollare, i medici a continuare in un’impresa che rimette al centro il ruolo della scienza, i politici ad assumere decisioni coerenti con valori che pongano la vita sempre al primo posto”.

Vuole raccontare cosa davvero è successo due mesi fa?
“Stavo bene ed ero fisicamente in forma, come sempre. Lunedì 17 mi è salita la febbre: mai successo, per questo sono andato in pronto soccorso. I medici mi hanno diagnostico una leggera polmonite. Si cura a casa con gli antibiotici: ho accettato il loro consiglio, sono passato in farmacia e sono rientrato qui, nel nostro appartamento”.

Come ha capito che le solite medicine non bastavano?
“La febbre è salita ancora di più. Martedì sono tornato in ospedale. Non c’era posto e ho aspettato in pronto soccorso. Appena possibile mi hanno rifatto le lastre e i medici hanno visto che i miei polmoni erano già pieni. Questione di ore: prima stavo bene, dopo ero a un passo dalla morte”.

Ha saputo subito di avere contratto il coronavirus?
“No. Visto che da due giorni non rispondevo alle cure per le polmoniti, l’anestesista Annalista Malara ha chiesto di farmi anche il tampone per coronavirus, che allora non era mai stato trovato in Europa. A me è stato detto che dovevano addormentarmi per curarmi meglio”.

Sua moglie si era ricordata della cena con amico rientrato dalla Cina?
“A Valentina è stato chiesto di tutto. I medici non capivano cosa avessi. Ha menzionato anche l’incontro con l’amico di Fiorenzuola, che però era rientrato in Europa già da settimane ed è sempre stato bene. Quella cena è stata un miracolo: l’amico non ha mai contratto il virus, ma il riferimento ha fatto accendere la lampadina dell’intuizione nella testa della dottoressa Malara”.

Perché parla di miracolo?
“Il 20 febbraio il Covid-19, ufficialmente, in Europa non aveva contagiato nessuno. Io sono ancora giovane e sportivo, eppure ero in fin di vita. Questa anomalia ha permesso di trovarlo e la scoperta non ha salvato solo me. Da quel momento ha permesso di diagnosticare il virus in migliaia di persone. C’è stato il tempo di curare un sacco di gente, di capire perché in tanti stavano già morendo”.

Si riferisce agli anziani?
“I medici mi hanno detto che almeno da gennaio, non solo in Lombardia, erano esplose polmoniti incurabili. Tra gli anziani era una strage, ma nessuno credeva che il coronavirus, dalla Cina, fosse già arrivato in Europa. Con me, l’età ha fatto la differenza”.

Vuole dire che con un anziano l’attenzione dei medici è inferiore?
“No. Dico che la dottoressa Malara non si è rassegnata a perdere un paziente senza capire perché. Tra gli anziani, colpiti anche da altre malattie, non è scientificamente inconcepibile una polmonite mortale. Io sarei stato un’eccezione”.

Cosa ricorda delle due settimane trascorse in coma?
“Appena sedato a Codogno sono entrato in un limbo. Ero incosciente, a tratti sognavo ma non ricordo più cosa. Non soffrivo: avevo però netta la percezione che quella pace fosse l’anticamera della fine”.

Come è stato il risveglio?
“All’ospedale San Matteo di Pavia mi hanno trasferito dalla terapia intensiva alla sub-intensiva. Per due giorni i medici mi ripetevano le stesse domande per testare la mia ripresa mentale. Lì ho saputo dov’ero, anche se non sapevo che nel frattempo Covid-19 si era rivelato una devastante pandemia”.

Ha scoperto dove, da chi e come è stato contagiato?
“No. Il mio paziente zero resta un mistero. Da mesi non ero andato all’estero, sempre la stessa vita: il lavoro a Casalpusterlengo e gli amici tra Codogno e il Lodigiano”.

Quando ha saputo che suo padre Moreno era morto?
“Il 19 marzo l’ho chiamato sul cellulare dall’ospedale. Era la festa del papà, volevo fargli gli auguri. Ha risposto mia mamma e piangeva. Impossibile fargli il funerale. Per adesso mia madre custodisce le sue ceneri in casa”.

Lei ha resistito perché stava per nascere la vostra prima figlia?
“Quando stai per morire non puoi razionalmente resistere. Penso però che l’imminente arrivo di Giulia abbia moltiplicato le mie energie fisiche. Non potevo andare via mentre lei stava arrivando”.

Il ruolo salvifico all’amore?
“Giulia doveva nascere domenica, 19 aprile. Ha anticipato e ho potuto assistere al parto all’ospedale Buzzi di Milano. Sono state due ore che per me valgono davvero tutta la sofferenza che l’hanno preceduta. Immagini: io appena salvato e uscito da una rianimazione, Milano e il Lodigiano demoliti da migliaia di morti e questa bambina che invece apre gli occhi perché sente che la vita è comunque meravigliosa”.

Cosa insegna la sua storia?
“Se intende chiedermi se mi sento in colpa, la risposta è che quanto successo per me non è una lezione morale. Il virus ha colpito me: non potevo fare qualcosa per evitarlo. Però è vero che una prova simile, non solo a me, chiarisce molti punti oscuri dell’esistenza. Mi limito a due. Primo, la generosità degli altri: se sono qui, lo devo a medici e infermieri che ogni giorno fanno con naturalezza molto più del necessario. Secondo, la forza mentale delle donne: mia moglie e mia madre, costrette ad aspettare, hanno sopportato più di mio padre e di me. Questa generosità e questa forza, a epidemia finita, non possono tornare ignorate”.

Ora c’è solo una parola che Mattia non può più ascoltare: “Stabile”. Gli è stata associata per un mese, non chiariva se la freccia indicasse la vita o la morte. “Anche l’Italia – si congeda – adesso merita la gioia di ritrovare la sua storica instabilità. Sarò sincero: io davanti vedo il sole”

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