Cristiano Varotti, riminese in Cina: “Dopo la quarantena uscire per un caffè è un grande evento”

Cristiano Varotti, originario di Novafeltria e figlio di Amerigo, direttore provinciale della Confcommercio di Pesaro Urbino, dal 2012 lavora in Cina nell’ufficio di rappresentanza della regione Marche.

Manager impegnato nell’assistenza alle imprese italiane che si affacciano sul mercato cinese e nello sviluppo di relazioni con gli enti pubblici cinesi, Varotti vive a Changsha, a 300 km da Wuhan, la città nella quale si è sviluppato il primo focolaio di Coronavirus.

Da Changsha sono partite in queste ore oltre 100.000 mascherine donate alle città di Ancona, Firenze, Ferrara e Torino, grazie anche all’impegno in prima persona di Cristiano Varotti: «In Italia c’è carenza drammatica di mascherine, camici, guanti, e strumentazioni fondamentali per il personale medico impegnato nella lotta al contagio. Qui stiamo cercando di fare quello che possiamo per dare il nostro piccolo contributo. Negli anni, in Cina, abbiamo costruito ottime relazioni con governi locali, in particolare nello Hunan e nella città di Changsha. Per tanti anni ho gestito gli scambi tra queste amministrazioni e l’Italia, e soprattutto la Regione Marche che con l’Hunan è gemellata. Da tutti i livelli stiamo ricevendo manifestazioni di amicizia e vicinanza all’Italia. Il sostegno dei nostri amici cinesi si sta traducendo nell’invio di molte donazioni che vogliono testimoniare l’attenzione nei nostri confronti e il grande affetto verso l’Italia. Finora la Provincia dello Hunan ha donato 20.000 mascherine alle Marche, la città di Changsha oltre 100.000 che sono andate ad Ancona, Firenze, Ferrara e Torino. Continuiamo in questo lavoro, grati dell’amicizia che il popolo cinese ci sta dimostrando».

Cristiano, tu sei tornato in Cina a gennaio, se non sbaglio, quindi hai vissuto in pieno l’emergenza Coronavirus. Quali sono state le tue sensazioni quando è scoppiata l’epidemia?
«Sono tornato in Cina a metà gennaio, e mi sono spostato in treno da Shanghai a Changsha, la città in cui vivo, proprio mentre diventava esecutivo il blocco di Wuhan. Era il periodo immediatamente precedente il festival di primavera, il capodanno cinese, e milioni di persone si spostavano ogni giorno per tornare nelle zone di origine e passare le feste in famiglia. La consapevolezza dell’effettiva estensione del problema è stata progressiva ma in ogni caso molto rapida. Quando sono arrivato a Changsha già sapevo che non sarebbe stata una crisi passeggera, non con tutti quei movimenti di persone, e che avrebbe colpito duro. Le misure di contenimento sono state tuttavia applicate con efficacia con gradi diversi di intensità. Controlli nelle stazioni, negli aeroporti, all’ingresso di tutti i palazzi e dei ristoranti. E un senso di responsabilità collettiva impressionante. Ha funzionato. Basti pensare che in tutta la Provincia dello Hunan (la cui capitale è appunto Changsha, a 300 km da Wuhan) abbiamo avuto poco più di 1000 casi di contagio e ormai ne siamo fuori».
Secondo te il governo italiano si è mosso bene, è stata una scelta condivisibile quella di adottare provvedimenti progressivi, oppure era preferibile intervenire subito con misure molto più restrittive?
«È politicamente difficile prendere decisioni radicali di contenimento in un contesto come quello italiano, eppure è necessario. Dichiarare lo stato di emergenza nazionale ha ripercussioni enormi su commercio, turismo e innumerevoli altri settori. La forza del sistema italiano, costruito sull’accoglienza, sulla bellezza del vivere e sulle piccole imprese, è anche in questo caso la sua grande debolezza. Capisco quindi la cautela iniziale, e ciò nonostante l’esperienza cinese (ma anche quella della Corea del Sud e del Giappone) dimostra che l’unico modo di superare la crisi e ricominciare a correre è introducendo misure di contenimento radicali. Oggi, nonostante la normalità sia stata ormai ristabilita al punto che da alcuni giorni persino le attrazioni turistiche sono state riaperte al pubblico, in Cina i controlli sono ancora alti. Negli aeroporti, ovviamente, ma anche nelle stazioni, all’ingresso dei compound, nei supermercati. E la gente ancora gira per strada con le mascherine».
Inizialmente quando era previsto il tuo ritorno a Novafeltria? Ovviamente sei in costante collegamento con la famiglia e con gli amici. Secondo te il nostro territorio come sta vivendo l’epidemia?
«Normalmente, quando parto per la Cina, non so mai quando tornerò a casa. Questa volta non ha fatto eccezione. Non ho mai avuto un programma di rientro. Certo non mi sarei mai aspettato che il contagio colpisse così duramente l’Italia e che anche le mie zone ne fossero interessate. È stato come assistere ad un trasferimento della lotta, dalla dimensione individuale a quella degli affetti. La differenza è che mentre non ho mai avuto paura per me stesso quando l’epidemia colpiva in Cina, avendo eseguito le disposizioni alla lettera, oggi sono invece in ansia per la mia famiglia e per gli amici. Ci sentiamo tutti giorni, continuamente. Io non faccio altro che ripetere a tutti di stare a casa, loro mi stupiscono con la creatività e la simpatia tipica della gente dei nostri paraggi. Mi sembra che il nostro territorio stia reagendo con grande forza di spirito, pur non sminuendo le conseguenze di questa condizione. Da quello che mi raccontano, però, ci sono ancora troppi irresponsabili che non riescono ad anteporre il bene collettivo alle proprie prerogative».

Prima parlavi di ritorno alla normalità, in Cina. Come hai vissuto questo momento?
«Due mesi di separazione e di quarantena volontaria lasciano inevitabilmente tracce, almeno nel breve periodo. La vita sociale è ancora ridotta al minimo. E se devo essere sincero, la voglia di uscire e fare cose, vedere gente, sembra non essere più quella di prima. Sto però apprezzando di più le piccole cose e i piaceri del quotidiano. Nelle ultime settimane anche uscire per un caffè si trasforma in un grande evento. Ho scritto molto di più che in passato, e ho avuto modo di riordinare le idee e programmare il prossimo futuro nei limiti del possibile. Mi sarebbe piaciuto poter leggere di più, ma i libri in italiano che avevo li ho polverizzati nella prima settimana di isolamento casalingo. È come essere in una fase di passaggio fatta di lunghe attese, graduali conquiste e grandi aspettative».

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